quinta-feira, 26 de abril de 2007

Formações

Aqui, http://lsr.nellco.org/cgi/viewcontent.cgi?article=1197&context=bc/bclsfp
pode encontrar-se uma leitura interessante do percurso de um título académico.

ABSTRACT:

The rise of the academic doctorate in law (a degree most U.S. scholars have either ignored or deprecated) is an important chapter in the story of law’s coming of age as an academic discipline in the first half of the 20th century. Drawing in part on continental European models, the architects of the degree shaped it into a vehicle for training a new class of law teachers, producing research into the nature and functioning of the legal system, and spreading emerging conceptions of law to a broader national audience. Notable among these conceptions were the “sociological jurisprudence” of Harvard’s Roscoe Pound and the Legal Realism of Columbia and Yale. This “missionary” function, however, was in tension with the implication of advanced scholarly work inherent in the degree’s name, and ultimately helped set the stage for the doctorate’s decline after World War II.

While today it is much more common for U.S. law teachers to have pursued doctoral study in a discipline other than law, a U.S. doctorate in law is an increasingly attractive credential for foreign-trained lawyers who hope to teach in their home countries. This article is the first installment of a larger study that traces how U.S. legal education borrowed practices from overseas to create the degree, digested and modified them to suit the needs of a rapidly evolving legal system, then redirected the flow of ideas elsewhere. As such, the study is a story of the coming of age of U.S. legal education not just at home, but on a world stage.

SUGGESTED CITATION:
Gail J. Hupper, "The Rise of an Academic Doctorate in Law: Origins Through World War II" (March 20, 2007). Boston College Law School. Boston College Law School Faculty Papers. Paper 196.

segunda-feira, 23 de abril de 2007

Escola de Método do Direito

Gonçalo (o sangue fica para mais tarde), Nuno et altri:

Aqui fica uma síntese do pensamento de Francesco Cavalla. Ele faz parte do Centro di Ricerche sulla Metodologia Giuridica:

"Dopo gli articoli comparsi su Acta Methologica, 1 (Milano, 2004) e su Ragionare in giudizio (Pisa, 2005), F.Cavalla ha pubblicato un ampio saggio che raccoglie in modo autonomo ed esaustivo i suoi precedenti lavori, in una forma che sta fra il trattato breve e il manuale d’uso. Il contributo è apparso recentemente su Retorica, processo, verità (Padova, Cedam, 2005). Ne descriviamo schematicamente il contenuto, offrendo una versione abbreviata del saggio di Cavalla scaricabile in formato .pdf

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Oltre al modo di organizzare il linguaggio artificiale tipico delle scienze formali (quali ad esempio la matematica), adatto a garantire la connessione logica fra le premesse del ragionamento e le sue conclusioni, esiste la possibilità di organizzare il linguaggio ordinario al fine di costruire ragionamenti dotati di rigore logico non minore. Parliamo del metodo noto come “retorico”, già illustrato da Aristotele, e approfondito da Cavalla secondo una prospettiva epistemologica e teorico-giuridica che si discosta dalle tesi di Perelman ed altri. Il metodo retorico, come generalmente si ammette, opera utilizzando premesse strutturalmente diverse da quelle delle scienze formali; nel suo caso non si tratta, infatti, di ipotesi ed assiomi, ma di “luoghi comuni”: proposizioni del linguaggio comune caratterizzate dalla frequenza con cui appaiono nei discorsi e dalla probabilità, intesa come condizione transitoria di proposizioni plausibili in attesa di accertamento. La prima fase dell’attività retorica (detta “topica”) consiste nella selezione di “luoghi” convenienti al tipo di situazione e di audience, i quali però siano anche sostenibili dal punto di vista logico (cioè tali da escludere significati diversi od opposti). La fase topica è perciò assistita da un controllo di identità e non contraddizione (detto “dialettico”), che rafforza la persuasività dell’argomentazione, sottraendola a una dimensione di irrazionalità suggestiva (accezione, quest’ultima, negativa della retorica). Attraverso l’uso di termini linguistici “vaghi” (cioè non univoci, se decontestualizzati) il retore può costruire definizioni sematicamente univoche, mediante la tecnica dell’“accumulo di proprietà”. A questo punto egli è pronto a misurarsi ulteriormente con i suoi interlocutori (poiché tale è la natura essenziale della retorica: la condizione di incessante confronto con altre ed opposte, per quanto in apparenza altrettanto plausibili, definizioni). Dovrà dunque predisporsi a superare quattro ostacoli fondamentali: l’indifferenza dell’uditorio ai suoi discorsi, il difetto di adeguate cognizioni per poterli comprendere, l’insufficienza della loro forza argomentativa rispetto alle possibili tesi avversarie, la mancata confutazione di quelle tesi. Il metodo retorico ha una risposta per ciascuna di queste eventualità, essendo contraddistinto (secondo Cicerone) da quattro generi complementari d’impiego: l’estetico, il didascalico, quello della motivazione e quello confutatorio (nel quale è largamente impiegato il “sillogismo dialettico”). Così costituite le premesse (o “luoghi”) del suo ragionamento, il retore procede alla deduzione delle conclusioni, secondo la formula «Se A, allora b». Tale fase è detta “entimematica”. Le conclusioni retoriche così ottenute sono certamente (accertatamente) vere, in quanto inconfutabili. Il retore ha infatti dimostrato che conclusioni diverse da b sarebbero logicamente contraddittorie con le premesse in A. Tale verità è detta “istantanea” in quanto vale in quel momento e in quella circostanza. Infatti, in un diverso contesto, è sempre aperta la possibilità che si producano nuove opposizioni, le quali costringeranno il retore a un opportuno riesame delle sue argomentazioni (“trovando” nuovi A e deducendo nuovi b). Ma sarebbe «certamente erroneo respingere una conclusione retorica sul presupposto che “tanto, potrebbe essere diversamente”; finché questo “diversamente” non prende le forme di una opposizione articolata, non vale certo a togliere dall’arbitrio e dall’errore l’eventuale rifiuto di un discorso motivato» (Cavalla). La conclusione retorica gode di una verità che, in quanto concreta, sta costantemente “sulla soglia” tra passato e futuro, diversamente dalle verità rigide ed astratte dei discorsi formalizzati, le quali possono essere (come le dimostrazioni geometriche) ripetute all’infinito in modo sempre uguale. Tale ripetibilità compete infatti a ciò che, in quanto astratto (come ad esempio i triangoli o le circonferenze), propriamente non “accade” mai. Il metodo retorico riguarda, invece, l’esistenza nel suo concreto accadere, essendo “razionalità pratica” capace di assicurare ai discorsi una persuasività fondata sulla logica. [Sintesi redazionale di M.Manzin]

In allegato un ampio compendio dell’articolo di F.Cavalla"

http://www.cermeg.it/2006/01/11/francesco-cavalla-metodo-retorico-e-ricerca-della-verita/

Neste link, no final da página existe um ficheiro PDF de 33 páginas com um resumo mais completo do pensamento do autor.

Critérios

No debate entre o Guilherme e o Gonçalo, existem algumas questões que me parecem muito relevantes. Evidentemente que temos de evitar idealizar um modelo frente a outro. A riqueza da Europa no pensamente jurídico moderno é inegável como o é a norte-americana (infelizmente aqui apenas resta lamentar o caso português, mas até aí podemos argumentar que pobreza que sofremos no Direito português não é substantivamente mais medíocre do que aquela que sofremos nas ciências sociais, na cultura ou na arte em geral).

Existem contudo duas observações importantes. Algumas inovações importantes no estudo do Direito ocorreram curiosamente mais ou menos ao mesmo tempo num e noutro lado do Atlântico, o Law and Economics e o Droit Economique, os Critical Legal Studies (US) ou Socio-Legal Studies (UK) e a Sociologie du Droit. E contudo hoje as inovações anglo-saxónicas são florescentes enquanto as suas congéneres europeias estão quase defuntas. Parece-me que existem duas razões importantes para isso.

A primeira, mais óbvia, é que a metodologia subjacente à inovação anglo-saxónica (no caso da L&Econ, o individualismo metodológico) está mais próxima do modelo económico e social que hoje vivemos do que a metodologia de origem francesa (no caso do DE, a superioridade da intervenção do Estado na economia). Não necessáriamente por mérito da inovação que veio dos EUA, o facto é que ela se encaixa melhor com o mundo de hoje em que necessariamente se insere o Direito.

A segunda, menos óbvia, é o formalismo prevalecente no pensamento jurídico continental (onde ainda hoje quem defende o functionalism do Direito em geral é visto como uma peça rara). Esse formalismo salvou Direito e os catedráticos do Direito das depurações decorrentes das mudanças de regime, nem sempre democráticas, que ocorreram no continente mas não no mundo anglo-saxónico. O formalismo foi pois uma boa estratégia de sobrevivência, mas reduziu a capacidade de inovação a longo prazo.

É que, meus caros, eu na Europa não vejo Ciência do Direito em geral, mas muito formalismo. A atração pelo mundo anglo-saxónico advém do facto do Direito aí ser realmente uma ciência social, em que as escolas de Direito são departamentos de ciências sociais. E, como assinala o Gonçalo e muito bem, não há nenhuma pensamento monolítico (até existem formalistas). Não vejo isso no continente, não encontro nem sequer uma vintena de escolas de Ciência do Direito na Europa (nem preciso de rankings para isso). E as ilhas de excelência que conheço apenas confirmam isso mesmo, que são ilhas num mar de formalismo.

"Loading my guns"

Gonçalo:

Devo dizer que rezava para que fosses tu a responder ao meu post. Na realidade verificou-se o que temia. A boca secou, uma onda de suor frio perpassou-me as costas. Sinto-me o Rei Leónidas e os seus bravos 300 contra o malvado Xerxes.
Basicamente acho que tens razão em quase tudo! Sei-o! Já o sabia :)

Porque o que tentei transmitir é que valorizo sempre o pensamento independente, que sim, pode impedir que saiamos lá para fora (ponto1)

Porque o que tentei transmitir é que apesar das vantagens do critério "publicações", continuo a acreditar na síntese "Biblioclasmo". Julgo que o conhecimento se deve valorizar por si, aliás como toda a vida, não em função de rankings que "enjoam", que como o mundo adulto retira a piada de se viver inconscientemente (piedade!!).

Porque o que tentei transmitir não tem reflexo visível, mas tem por nome cultura, que nem seque sei definir mas sinto que me corre nas veias.

Porque o que tentei transmitir é que muitos trabalhos na língua inglesa que tenho lido recentemente medem o mundo pelo que se escreve em inglês. Sobretudo o que me pisa a alma e me faz sorrir é o facto de se achar que não pode haver surpresas neste velho mundo inquinado europeu. Por exemplo uma delas é aquela escola de Filosofia do Direito de Pádua de que falámos já muito atrás. Como se pode dizer que não se inova e não se pensa se não se conhece? Quanto ao restante ponto tens toda a razão. Lembro-me de como os nossos professores se congratulavam por terem incluído um manual inglês na bibliografia...

O absurdo da minha discussão com o Richard não posso comentar. Conheço mal as referências que usaste à excepção do Holmes, que também não conheço bem.

Porque o que tentei transmitir foi precisamente como fazer comentários como "os europeus não percebem L&E, CLS e Direitos"? Não é que não tenhas razão, mas será que precisamente pela falta desses rótulos sonantes não te estão a escapar movimentos pouco visíveis? Até porque apesar de não gostar do Habermas sempre se tem escrito alguma coisa sobre ele...Será que o que discutimos não tem a ver com o facto da cultura americana jurídica ditar as grandes escolas e os europeus um pouco como a arte contemporânea se dividirem em milhares de facções e nenhuma ao mesmo tempo?

Porque o que tentei transmitir é que os rankings e o inglês não capturam o mundo e a cultura implícita neste argumento julgo só os europeus orgulhosos a percebem na totalidade.

Porque o que tentei transmitir reside no facto de: e se alguém leu Sartre e aplicou ao mundo jurídico e o ensinou nas aulas e não o escreveu, qual o problema?

Porque o que tentei demonstrar é que o "espírito sexy" é demasiado show e pouco conteúdo, de outra forma demasiado do nosso tempo, aliás em Portugal a Superbock passou a uma imagem mais sexy com o Pires de Lima.

Porque finalmente o que tentei demonstrar e percebeste (teria a certeza que o perceberias - tantos mimos) é que provincianismo não, mas estrangeirado também não. As críticas não eram objectivas, mas subjectivas, muito mais ao espírito que ressoa do mundo da investigação "americano" do que às suas instituições concretas.

Portanto o alvo não está à superfície.




Diatribe ao Guilherme "Dandy" Vilaca

Meu caro

Nao vou defender a ideia absurda de que o direito, ou o pensamento juridico, Americano (ou anglo-americano?) -- se a esse te referes -- sao intrinsecamente melhores do que os homologos continentais. As analises “intrinsecas” sao aqui, como de resto em muito outros lugares, absolutamente inuteis e fraudulentas. Tenho uma admiracao profunda pela cultura juridica continental, apesar de ser a mesma que tenho pela arte classica – comove-me a grandiosidade mas fico angustiado com a pobreza existencial e a falsidade artistica. E acima de tudo fico deprimido com a pobreza tardo-classica, descontando as excepcoes isoladas e fazendo a venia educada as eminencias pardas, etc. De resto, duvido que muitos a tomem tao a serio quanto eu – quem e que leu os classicos? (Do direito, claro, porque juristas a ler filosofia so na penumbra e termina tudo em "metodonomologias", seguramente excelentes, mas que sao um desafio maior que Lacan e desencorajam os sobreviventes)

Nao sou, ao contrario, por exemplo, do Nuno, um utilitarista (embora me reveja na epistemologia pragmatista e seja todo a favor do corte fenomenologico de Bachelard e Husserl e... Sartre!). Podemos portanto deixar o tema utilitarismo/deotologismo (ou "conceptualismo" ou que seja) em suspenso. Mas acho que a tua descricao do estado de coisas, no velho continente, ja para nao falar de Portugal, deixa muito a desejar. Respondo a tua polemica, intencional – “irei ser atacado, sei-o” -- com mais polemica.

Permite-me que, num gesto bem continental, refira alguns topicos que enfraquecem, julgo, o unilateralismo dos teus energicos comentarios.

Antes, porem, “cards on the table”: E verdade que muitos professores de direito Americanos sao quase chauvinistas e, com a excepcao geral dos comparatistas ou dos com tendencias cosmopolitas, tem um preconceito ignorante contra os estrangeiros. Ate verem provas de qualidade sao cepticos. Limitam-se, devo dizer-te, a imitar os Europeus desde meados do Sec. XIX ate meados do Sec. XX, quando a crise do direito continental e do pensamento juridico “dogmatico” rebentou. E mesmo hoje sinto que ha na Europa uma rejeicao primaria do pensamento juridico anglo-americano, especialmente da parte dos alemaes. Os alunos alemaes, tanto quanto me e dado ver, nao sao particularmente bem-sucedidos quando vem estudar direito para a America porque tem um preconceito primario contra qualquer demonstracao de que o segundo capitulo do Sistema de Direito Romano Moderno do veneravel Savigny – que muito poucos leram, diga-se – contem algumas afirmacoes que ja na epoca eram ridiculas e hoje rocam o obsceno quando reproduzidas. Em geral, no entanto, os juristas estrangeiros tem mais dificuldade de acesso do que os americanos. Nesse aspecto, o direito difere de outras disciplinas onde a internacionalizacao e plena.

Voltando ao nosso tema. Algumas notas, em esforco de “retorizacao” do teu discurso unilateral:

1) “Ora, não tenho qualquer dúvida que o sucesso lá fora, o devemos em parte, também ao nosso sistema ainda que atrasado.”

Falso. Claro que ha (alguns, poucos) bons professores e (alguns, poucos) bons livros e artigos nas faculdades de direito portuguesas. Mas sao excepcoes, invariavelmente produzidas por lutas quixoticas contra a apatia e a indiferenca da "audiencia". Quem se quiser safar fora, a nao ser que estejemos a falar da Albania, so tem duas hipoteses: (a) concentrar-se num nicho metodologico ou um dominio restrito de estudos mais ou menos virgem e assumir o papel de tecnocrata-mor na especialidade; ou (b) trilhar o caminho obscuro do auto-ditatismo e da rebeliao, lutando ainda contra a ameaca da indisciplina e da superficialidade -- uma opcao arriscada. A escolha e entre alienacao brutal ou risco brutal. Tertium non datur.

2) “Quando se diz que por vezes alguns juristas não dominam outras áreas (concordo) poder-se-ia dizer também que muitos investigadores também não consideram importante dominar outras línguas em que são escritos trabalhos da sua área de especialidade.”

Sao muitos os juristas academicos que leem soretudo em Ingles? Claro que nao. Mesmo que queiram, o “sistema” e dominado pelo alemao. Nao que eu seja contra o alemao – nada disso – mas o teu comentario deixa-me perplexo. Sao muitos os que em Portugal estudam, ou sequer leem, a literatura juridica anglo-americana?! O “realismo juridico americano”, de que falas e a que voltarei, e bem conhecido exactamente por quem? (Como sabes, realismo juridico nao quer dizer que “o que os juizes fazem e o direito” – essa e uma das dimensoes e a menos sofisticada e interessante). E a boa das verdades e que se ha problema em Portugal e que as pessoas “cortam e colam” o que esta noutros livros, particularmente tratados e manuais estrangeiros. O numero de juristas portugueses com uma unha negra de originalidade e confrangedor.

3) “Lembro-me de uma discussão que tive com o Richard em que ambos parecíamos admitir que afinal o "legal realism" nascera na Alemanha, com a escola do Direito Livre, importado para os EUA após uma visita de Karl Llewellyn à Alemanha.”

Salvo o respeito devido ao Richard, com quem me correpondi, isso e absurdo. Demonstra que ele nao compreendeu bem o pensamento juridico continental e a Escola do Direito Livre (que, em todo o caso, foi um episodio marginal na Historia da cultura juridica continental). Nao e surpreendente, mesmo sendo ele um distinto comparatista: para nos tambem e dificil interiorizar o modo de pensar o direito americano. Mas falemos sobre o realismo. O Kantorowitcz – nao o Isaay – publicou dois artigos no Yale Law Journal, que poucos leram, rejeitando categoricamente o realismo juridico e demarcando bem a Escola do Direito Livre das "aventuras politicas irracionais" dos realistas. O artigo crucial chama-se “Some Rationalism about Realism”! Nao tenho aqui espaco para explicar o realismo juridico americano como deve ser, mas asseguro-te que tem muito pouco em comum com a EDL. O realismo influenciou profundamente a cultura juridica americana (nao a britanica). Quando o Llewellyn visitou a Alemanha ja o realismo americano estava em andamento, com Holmes e – muito especialmente – Hohfeld. O brilhante artigo de Hohfeld “Fundamental Legal Conceptions (...)” e essencial para compreender o realismo e a sua ligacao com a Economia Institucional de Commons e Hale. A situacao actual do pensamento juridico caracteriza-se pelo pos-realismo e a razao principal, na minha opiniao, para o enorme dominio e prestigio do direito americano tem que ver com o facto da Europa desconhecer o realismo! (Nota: O realismo escandinavo nada tem que ver com isto; tratou-se de uma escola "realista" nos sentidos filosoficos de "positivista" e "empiricista"). E tambem por isso que os Europeus em geral nao entendem bem nenhum dos tres grandes movimentos de ideias na cultura juridica americana contemporanea: o discurso sobre "direitos" (ex: Dworkin), a analise economica do direito (ex: Posner) e os critical legal studies (ex: Kennedy).

4) “tempos da Sorbonne e do Sartre em que nem tudo o que se pensava tinha que sair numa revista”

E quem leu Sartre – e "aplicou-o" ao pensamento juridico – em Portugal? Em Paris le-se Sartre, pois claro (o contrario seria o mesmo do que em Harvard nao se ler Rawls), mas e em Portugal ou Espanha? Alguem em Portugal escreveu sobre a psicologia e a fenomenologia do julgamento juridico em termos da ideia de ma-fe desenvolvida por Sarte em “O Ser e o Nada”? Alguem escreveu sobre a ruptura fenomenologica e a apropriacao Sartreana da “Epoche” de Husserl? E o debate Levi-Strauss/Sartre sobre a questao da subjectividade? MAIS: Alguem usa com rigor a palavra existencialismo (com a excepcao da teoria da culpa de Figueiredo Dias, embora seja mais na linha de Jaspers) ou estruturalismo (com a excepcao da historiografia juridica do Hespanha)? Claro que ate pode ser o caso de que nada disso interessa a juristas quae juristas. Tu, no entanto, sugeres que sim, que interessa.

5) “Em suma, eu gosto do intelectual diletante e dandy, com todos os vícios inerentes mas com toda a sua piada”

E entao? Meio a brincar/meio a serio (mais a serio que a brincar), sou todo pelo espirito diletante, Grunge Rock, levar o anarquismo a serio, descofiar da disciplina (sem rejeita-la totalmente), libertacao da ironia e do paradoxo, anti-formalismo, etc, etc... mas que tem isso que ver com o resto? O espirito juridico reinante no continente e tudo menos “modernista”... domina o formalismo. Nada excitante, nada frenetico, nada "sexy"! A nao ser que por dandy te refiras a falta de honestidade intelectual – nao confundir honestidade intelectual com monismo metodologico – e tolerancia total para com a mediocridade. Duvido, mas entao nao sei como interpretar o teu "Shtick". Mas vou tentar.
Shtick. O teu texto flutua entra um apelo romantico as "velhas tradicoes" (lembra o preambulo da Constituicao de 1822), um superficialismo sentimental militante (o "dandy") e uma angustia modernista com o futuro e as contradicoes (o diletante contra o sistema). Em que e que ficamos? Ou a contradicao e para ficar, para valer? Ou sera que o teu ponto, encoberto numa neblina de idiossincrasias (sem criticas: aprovo), e contra o nosso eterno dilema entre dois pessimos: o provinviano e o estrangeirado?

A este proposito, tenho de reconhecer, com o sinistro prazer suportado por uma restia de provincianismo, que ha muitos aspectos em que o "sistema" americano e muito mau. Mas nao me parece que tenhas tocado em nenhuma das feridas e portanto senti liberdade para atacar incondionalmente, desproporcionalmente, o teu discurso. Espero ansiosamente uma reaccao: irei ser replicado, sei-o :)

"Load up on guns
Bring your friends
(...)"

Abraco,
Goncalo.

sexta-feira, 20 de abril de 2007

Critérios

Direito é sem dúvida um mundo à parte! Aliás, Direito não casa com "Investigação", já que se contam pelos dedos da mão os elementos das faculdades de Direito que são apresentados como investigadores. Continuando a peregrinação, atrever-me-ia a avançar a ideia que "inovação" também não casa com Direito, não por que esta não exista, mas porque é dificilmente reconhecida. Direito também casa mal com "renovação", a avaliar pelos apelidos que povoam as nossas faculdades, sobretudo as que empregam "assistentes estagiários".

Mas também nem tudo é mau! Por exemplo, não embalo na crítica fácil que nos EUA, e Reino Unido os professores são necessariamente melhores, ou que por cá, e Itália ou França se não faça nada no que toca ao desenvolvimento da ciência do Direito. É verdade que muitas vezes o que se faz, não se transmite, e que a comunicação é um dos valores de hoje em dia. É verdade que muito do que se escreve, é escrito na língua mãe e não em Inglês, mas uma vez mais não se pode julgar o mundo pelo inglês. Não se pode e ponto! Porque quem quer estudar os clássicos estuda grego, latim e assim em diante.

Até porque sob pena dos portugueses que se dão bem lá fora terem que ser génios por definição, as nossas faculdades têm que contribuir em alguma medida para o seu sucesso, e isto, desculpem-me, ninguém diz. Ora, não tenho qualquer dúvida que o sucesso lá fora, o devemos em parte, também ao nosso sistema ainda que atrasado.

Recentemente um espanhol lançou uma tese polémica,
BIBLIOCLASMO, livro do maior interesse que se resume à tese que "nunca se escreveu tanto e nunca se disse tão pouco". Ora, com o devido respeito pela investigação em língua inglesa, será bom de se dizer que, como reconhecia o Professor Richard Hyland (Distinguished Law Professor, Rutgers Academy) quando esteve na FDUNL - 2006, 80% é sem dúvida lixo. E isto é esquecido também por quem apregoa a investigação internacional. Investigação essa, muitas vezes assente no modelo "paper" de 20-30 páginas, lembra os estudantes de Belas - Artes que por falta de conhecimento da História julgam ter descoberto todos os estilos que afinal já existem. Afinal de contas, exagerada pressão para publicar e pouco tempo e leitura de fontes apenas em inglês contribui sobremaneira para a redução do "Mundo" a um "estado". Quando se diz que por vezes alguns juristas não dominam outras áreas (concordo) poder-se-ia dizer também que muitos investigadores também não consideram importante dominar outras línguas em que são escritos trabalhos da sua área de especialidade. Talvez assim se acabasse com a filosofia que tudo é inovação, presente na estrutura de muitos papers (formalmente é quase preciso identificar-se o contributo à disciplina). Lembro-me de uma discussão que tive com o Richard em que ambos parecíamos admitir que afinal o "legal realism" nascera na Alemanha, com a escola do Direito Livre, importado para os EUA após uma visita de Karl Llewellyn à Alemanha. Mas quem perde tempo a ler Isaay? Ou quantos trabalhos são feitos analisando-se a Enciclopedia of Comparative Law, sem se ler as normas no original ou qualquer tratado na língua relevante sobre o tema? Não digo que seja sempre necessário, mas é também esse o papel do investigador. Obviamente , um papel que exige mais tempo do que aquele que hoje é concedido.

Esta é a minha costela europeia, que demonstro orgulhoso e saudoso (irei ser atacado, sei-o) dos tempos da Sorbonne e do Sartre em que nem tudo o que se pensava tinha que sair numa revista... Reconheço as limitações do modelo...reconheço que talvez produza alunos excepcionais, mas não um nível geral muito alto, reconheço que encrave a inovação (mas o que é a originalidade? diria Borges, e o que o Homem leu!!!) e encrava, é um facto. Basta olhar para qualquer escrito sobre o Direito, especialmente a nível argumentativo continuamos à espera que a lei mude para dispormos de novos argumentos. Haverá porventura mais defeitos a apontar, mais até do que aqueles a apontar às faculdades do mundo desenvolvido, mas o pluralismo só será atingido (como dizia a Cláudia) se os nossos ficarem cá também, se soubermos aproveitar os pensadores que temos e não deixarmos fazer de Portugal um "liceu", que nalguns comentários pós-Bolonha foi já confirmado.

Em suma, eu gosto do intelectual diletante e dandy, com todos os vícios inerentes mas com toda a sua piada. Serve este post para tentar evitar um "modelo único" que esqueça quem somos, mas também para reconhecer que precisamos de ser mais!

Guilherme

segunda-feira, 16 de abril de 2007

O projecto de internacionalização das nossas universidades

Na semana passada, o Ministro Mariano Gago contentava-se publicamente com o aumento do número de publicações de investigadores nacionais em jornais científicos internacionais. Faz parte dos objectivos do governo no âmbito da política da educação a melhoria da qualidade do ensino superior, num esforço de o credibilizar, prevendo-se acordos com reputadas instituições internacionais, que devem o seu prestígio à qualidade da investigação que fazem e que depois se reflecte na qualidade do ensino que prestam. A OCDE recomenda avaliações às instituições de ensino superior nacionais a realizar por júris internacionais. Avaliações essas que lá fora incluem nos seus critérios de apreciação, entre outros, os CV dos docentes e a participação em projectos internacionais.

Com base nestes dados, concluiria que há que apostar fortemente na qualidade e internacionalização do capital humano das nossas universidades. Dar condições aos que maior capacidade demonstram para investigar e leccionar, em especial aos que têm visto essa qualidade reconhecida a nível internacional. Além de que me parece mais óbvio, por ter uma maior probabilidade de sucesso, um esforço de aproveitamento dos recursos que já temos, que já estão inseridos nas nossas instituições, do que andar a implementar políticas de 'atracção de cérebros'. Políticas essas que me parecem extremamente relevantes para introduzir sementes de mudança de mentalidades no sistema, mas que se me apresentam como inconsequentes e ilógicas quando se ignora a potencialidade dos recursos endógenos.

Mas estou errada no meu raciocínio. De outro modo, não seria possível justificar que, não existindo em Portugal um centro de investigação de reputação internacional na área do Direito (quando refiro 'internacional' tomo como referência a Europa e os EUA, e não África e a América do Sul), se tenham desaproveitado as pessoas que, ensinando cá, mais prestígio têm lá fora. Aquelas que por serem frequentemente convidadas para leccionar em universidades de topo e terem presença assídua em fóruns de investigação com excelência reconhecida poderiam ser os elementos dinamizadores da mudança que por cá se apregoa. Nalguns casos saíram (e estão a sair!) e não se vislumbra um regresso. Nos poucos casos que regressaram e ficaram não lhes foi dado lugar nas faculdades de Direito.

Serão os acordos com as tais reputadas instituições internacionais destinados a sub-contratar a investigação, ficando as universidades portuguesas com o mero papel de 'liceus do ensino superior'? Ou Direito é um mundo à parte porque o legislador comunitário e os mercados financeiros internacionais, inter alia, são apenas mitos?

Analisando a evolução do número de estudantes portugueses que, ao longo dos últimos cinco anos, têm procurado universidades estrangeiras para concluir graus de formação a níveis cada vez mais básicos (já não estamos a falar de doutoramentos, mas de licenciaturas!) e a preferência que é dada pelos grandes escritórios de advocacia nacionais a esses em detrimento daqueles que fizeram toda a sua formação cá, não parece que se possa continuar a ignorar a forma como a facilidade de circulação e o reconhecimento internacional dos graus académicos já está a afectar a mobilidade de recursos, com os estudantes a ser atraídos para os centros de excelência internacionais.

sexta-feira, 6 de abril de 2007

Devem os Juizes ter em conta a rejeição da opinião pública às suas sentenças?

Não será que a forma como a opinião pública mostra a sua rejeição às sentenças judiciais limita a independência do poder judicial? Interessante artigo de Cass Sunstein, de Chicago. Na verdade, se existe um bias sistemático da opinião pública, uma perspectiva consequentalista que tenha em conta esse sentimento de rejeição poderá gerar um impacto excessivo na aplicação da lei.
O abstract:

At first glance, it is puzzling to suggest that courts should care whether the public would be outraged by their decisions; judicial anticipation of public outrage and its effects seems incompatible with judicial independence. Nonetheless, judges might be affected by the prospect of outrage for both consequentialist and epistemic reasons. If a judicial ruling would undermine the cause it is meant to promote or impose serious social harms, judges have reason to hesitate on consequentialist grounds. The prospect of public outrage might also suggest that the Court's ruling would be incorrect on the merits; if most people disagree with the Court's decision, perhaps the Court is wrong. Those who adopt a method on consequentialist grounds are more likely to want to consider outrage than are those who adopt an interpretive method on nonconsequentialist grounds (including some originalists). The epistemic argument for attention to outrage is greatly weakened if people suffer from a systematic bias or if the public view is a product of an informational, moral, or legal cascade. There is also a strong argument for banning consideration of the effects of public outrage on rule-consequentialist grounds. Judges might be poorly suited to make the relevant inquiries, and consideration of outrage might produce undue timidity. These points have general implications for those who favor popular constitutionalism, or judicial restraint, on democratic grounds. An understanding of the consequentialist and epistemic grounds for judicial attention to public outrage also offers lessons for the decisions of other public officials, including presidents, governors, and mayors, who might be inclined to make decisions that will produce public outrage.

quarta-feira, 4 de abril de 2007

O copianço

Um texto interessante de Ricardo Reis sobre qual é o papel do "copianço" se os objectivos principais dos exames são incentivar o estudo e permitir aos alunos sinalizar o seu valor.

Porque há exames na faculdade?
O principal objectivo do professor é que os alunos aumentem os seus conhecimentos. Como também é este o objectivo dos alunos, não deveria ser preciso perder tempo em exames. No entanto, se os alunos, jovens, têm dificuldade em comprometer-se a estudar, porque não conseguem resistir a outras tentações como ir para a praia ou namorar, então a possibilidade de reprovar um exame cria um custo em não estudar. Para evitar este custo, os alunos não cedem às tentações e fazem aquilo que realmente desejam, estudar.
É preciso também dar um inventivo ao professor. É que, no dia do exame, a melhor coisa que o professor pode fazer é entrar na sala e anunciar que o exame está cancelado. Por essa altura, já ninguém vai estudar mais ou menos, e assim evita-se o desperdício de fazer e corrigir exames. O problema é que os alunos antecipam este comportamento e percebem que não vai haver exame. Por isso, não estudam e acabamos todos pior. As universidades arranjaram um mecanismo para corrigir este problema: obrigam todos os professores a fazerem exames e proíbem-nos de os cancelarem.
Existe uma segunda razão para ter exames. A sociedade pede às universidades que sinalizem os alunos que são mais trabalhadores, inteligentes e esforçados. Esta informação é muito valiosa para os futuros empregadores, que assim evitam os enormes custos em avaliar cada candidato a emprego. Para responder a este pedido, as universidades criam obstáculos para os alunos ultrapassarem na forma de exames. Uma licenciatura passa assim a ser um certificado que o aluno passou esses obstáculos, e a média final um sinal mais preciso das dificuldades que teve.

Qual é o papel do "copianço"?
Se os dois objectivos principais dos exames são incentivar o estudo e permitir aos alunos sinalizarem o seu valor, qual é o papel do "copianço"?
Se o aluno sabe que, com uma probabilidade positiva, pode copiar sem ser apanhado, então não vai resistir a esta tentação assim como não resistia a ir à praia ou namorar, pelo que deixa de estudar. Por sua vez, se o mercado de trabalho sabe que os alunos copiam, então a licenciatura ou média de curso perdem valor como sinal, porque deixam de distinguir entre os bons alunos e os alunos que copiam bem.
Copiar ataca na raiz as duas funções dos exames. Daí o esforço das universidades em combatê-lo.
Os únicos beneficiados do estado de "copianço" são os alunos que não têm como objectivo aprender, e os alunos que se apercebem que a universidade vai sinalizar o seu baixo valor pelo que preferem eliminar o sinal na esperança de serem confundidos com outros de maior valor.

Regulação do copianço
Na minha vida, passei por três sistemas de ensino.
Em muitas universidades portuguesas, muitos copiam abertamente e quem não ajuda no acto de copiar é visto como mau colega. As regras das universidades tornam difícil condenar um aluno apanhado a copiar e as punições são leves. Em Inglaterra, nas universidades que conheço, os exames têm muitos vigilantes e regras rígidas. O sistema de exames é custoso (e por isso os exames raros) mas é muito difícil copiar. Nas universidades de topo nos EUA, em contrapartida, a vigilância é baixa.
Em Princeton, o professor é obrigado a deixar os alunos sozinhos na sala durante o exame. Vigiá-los seria uma falta de confiança, até porque todos assinam no topo da folha de resposta uma jura de que se vão comportar de uma forma honrada. Mas se alguém é apanhado a copiar (ou porque foi denunciado por um colega ou porque as respostas o tornam óbvio) então a punição é muito severa–pelo menos suspensão por um ano e talvez expulsão.

Estas diferenças entre sistemas de combate ao "copianço" capturam diferentes atitudes perante a regulamentação:
(1) não regular e tolerar a ineficiência do mercado;
(2) regular de uma forma severa mas com grandes custos de implementação; ou
(3) deixar o mercado auto-regular-se mas punir severamente os poucos incidentes.
Nos mais diversos domínios, da justiça, à fiscalização, ou à regulação da economia, as sociedades escolhem entre estas três abordagens.

domingo, 1 de abril de 2007

Estudar Richard Posner

Segundo reputados especialistas portugueses, o juiz federal Richard Posner é um tal economista que mantém um blog com Gary Becker!! Se assim andamos entre os economistas não pode surpreender que a AED não entre em Portugal...